“Il bambino deve avere ogni possibilità di dedicarsi a giuochi e ad attività ricreative orientate verso i fini che l’educazione gli propone; la società e le pubbliche autorità devono impegnarsi ad agevolare il godimento di questo diritto” (ex art. 7 della Dichiarazione dei Diritti del Bambino).
Inizio con questo articolo una serie di riflessioni sul gioco come strumento privilegiato da utilizzare nella relazione con i bambini; sia che si tratti di cosiddetti normodotati, sia nei casi via via più difficili dei disturbi del comportamento o di patologie.
La qualità della vita è un concetto relativo che richiede contestualizzazioni e individualizzazioni.
Siamo abituati a pensare alla qualità della vita come ad uno stato di benessere derivante da soddisfazioni, gratificazioni, autostima e fiducia nel mondo che ci circonda. Un benessere che perseguiamo con forti investimenti in ambito relazionale, sia che si tratti di obiettivi nell’ambito della sfera affettiva, sia che si tratti della ricerca di realizzazione in ambito scolastico, lavorativo o del tempo libero.
La nostra qualità della vita non può prescindere dalla qualità delle nostre relazioni. È forse per questo che sin dalla nascita si esprime una spinta verso la costruzione, la definizione e l’affinamento delle “tecniche” di interazione e comunicazione con l’Altro.
La variegata evoluzione dei risultati di questa esplorazione, che inizia sin dalla nascita, è caratterizzata dal fatto di esplicarsi, per lo più, in attività che sono svincolate da scopi contingenti e da uno stato di necessità; sono attività apparentemente improduttive e fini a se stesse.
Ma – si noterà – sono, queste, caratteristiche che definiscono, secondo alcuni studi, il gioco. Proprio il gioco, che secondo il senso comune riveste un significato di attività ricreativa con uno scopo rigenerativo delle energie spese nel lavoro, ma che, così definito, non spiega perché a giocare siano soprattutto coloro che non lavorano e che, peraltro, lo fanno con un grande esborso di energie; abbiamo tutti ben presente con quale forza il sonno rapisca il bambino dopo una intensa e faticosa giornata di “giochi”.
Il gioco, allora, è qualcosa di più.
Dal gioco si può ricavare divertimento improvvisando semplicemente un’attività motoria non strutturata; si possono ricavare sensazioni gradevoli dall’articolazione di un gioco attraverso regole informali, oppure trovare gratificazione emotiva nel gioco che prevede il rispetto e la condivisione di regole e finalità che sono state precedentemente formalizzate, come in una gara o in un gioco di società.
In questa che, schematicamente, è l’ampia gamma delle attività di gioco si individuano comunque delle costanti. Abbiamo già visto come la prima di queste sia l’improduttività del gioco: il bambino gioca senza scopo apparente se non quello di giocare. Un’altra costante è la piacevolezza, ovvero il positivo tornaconto emotivo che si ricava dal gioco: non ci sono obiettivi esterni, ma un appagamento intrinseco. Il gioco, per essere tale, deve essere spontaneamente intrapreso. Il gioco è ben definito dal resto delle attività quotidiane, da cui si differenzia per il tipo di comunicazione e di segnali che creano i confini tra gioco e non gioco; ciò consente agli attori di dare inizio al gioco invitando altri a parteciparvi e di lanciarsi, durante l’attività ludica, messaggi verbali e non verbali che confermino che “questo è un gioco”. È così che all’interno del gioco possono cambiare i significati delle cose in modo condiviso (si va dalla rappresentazione alla meta-rappresentazione).
Il gioco richiede tranquillità, assenza di interferenze e turbamenti che provengano dall’esterno, e nel caso dei bambini questa tranquillità è – o dovrebbe essere – presidiata dagli adulti. Il gioco è caratterizzato dal fatto di essere comunque regolamentato: anche quando è, apparentemente, l’espressione di una libertà assoluta, come nella semplice manipolazione di un oggetto o nelle attività motorie meno strutturate, deve sottostare alle leggi della fisica, per es quando il bambino constata la legge della caduta dei gravi lanciando oggetti dal seggiolone, o ai propri limiti fisiologici nell’impegnarsi in una serie di piroette.
C’è, tra le costanti, ovviamente, anche la libertà; l’ampio margine di manovra consentito dal condividere una situazione, quella di gioco, che in alcuni casi, per es., può anche simulare la vita reale, ma ne rimane al di fuori.
Tutti i giochi sono caratterizzati anche da incertezza e imprevedibilità; il gioco evolve momento per momento e non si può sapere come andrà a finire.
Per ultimo ricordiamo l’elemento della finzione, intesa qui a sottolineare come, in varia misura, giocare significhi “uscire” consapevolmente dalla realtà, oltre che, in molti casi, impegnarsi in veri e propri giochi di finzione.
In letteratura si trovano diverse teorie che spiegano il significato del gioco, a partire da quelle che, tra l’Ottocento e il Novecento, davano del gioco la descrizione di un’attività di tipo residuale rispetto all’evoluzione della specie, per passare a studi che danno maggiore dignità funzionale al gioco considerandolo “l’esercizio” attraverso cui imparare le “cose serie” della vita. Il XX secolo vede svilupparsi molti studi tesi a dimostrare quanto il gioco sia importante per lo sviluppo cognitivo, emotivo e della socialità.
Quello che comunque oggi risulta chiaro è che nelle attività di gioco il bambino trova, quindi, un luogo privilegiato dove sviluppare e mettere alla prova un’ampia gamma di competenze ed abilità: da quelle meramente motorie e cognitive a quelle del linguaggio, sociali e della comunicazione, che nello sviluppo normale sono in costante e sinergica compenetrazione.
Il gioco può, quindi, diventare un prezioso strumento di attività psicoeducativa e luogo privilegiato di osservazione da utilizzare nell’approccio e nella presa in carico dei bambini (per es. nei dopo scuola) e in particolare dei bambini “difficili”.
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