Nuovi Media: diavolo o acqua santa?

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“T. t. f.”. Questo è il modo in cui mi è capitato di essere apostrofato da un adolescente che seguo in qualità di psicologo quando ha scoperto, con suo enorme stupore e disappunto, che ero uno dei pochi esseri umani a non avere ancora un profilo su Facebook: “Totalmente tagliato fuori”.

Questo il suo giudizio inappellabile, che troverebbe del resto d’accordo coloro che non possono nascondere uno sguardo compassionevole quando gli capita di vedermi alle prese con il mio telefono cellulare, vecchio di dieci anni e pagato una manciata di euro.

In effetti ci si potrebbe chiedere: come è possibile non cedere al fascino e non sfruttare le enormi potenzialità che l’evoluzione tecnologica ci offre nella forma di quegli artefatti detti nuovi media?
Con questo termine si intende indicare quei mezzi di comunicazione sviluppatisi posteriormente alla nascita dell’informatica e in correlazione ad essa, dei quali Internet può essere considerato come il paradigma.
E’ innegabile che questi siano la prova dell’ingegno dell’uomo, della sua capacità di abitare le distanze, di rimpicciolirle fino a farle scomparire, per rendere possibile una comunicazione senza frontiere, per collegarsi ai capi opposti del mondo, per fondare una vicinanza un tempo impossibile.
All’opposto però c’è chi invece pensa le nuove tecnologie comunicative come nocive in sé, la causa dei mali del nostro tempo, responsabili della corruzione delle nuove generazioni che hanno perso di vista gli ideali e i valori dei bei tempi andati.
Chi ha ragione dunque? Come pensare Internet e compagnia bella? Come ad una nuova soluzione ideale ai nostri limiti o come ad una manifestazione del malessere dei nostri tempi?

Difficile dirlo quando si ha a che fare con una questione di tale complessità, che implica trasformazioni radicali a vari livelli della nostra esistenza. Quello che è certo infatti è che non si può evitare di prendere una posizione in merito.

Il noto sociologo canadese Marshall McLuhan teorizzava una sorta di determinismo tecnologico, ovvero l’idea che in una società la struttura mentale delle persone e la cultura siano influenzate dal tipo di tecnologia di cui tale società dispone.

Al di là dei contenuti che essi veicolano dunque, non si può evitare di prendere in considerazione il fatto che l’avvento di tecnologie talmente rivoluzionarie abbia e stia avendo degli enormi effetti sul modo di pensare, sentire, agire e mettersi in rapporto con gli altri dell’uomo moderno.

Ora, se evitare di porsi queste domande mi pare un atteggiamento chiaramente criticabile, mi sembra che i poli opposti dell’idealizzazione e della demonizzazione, di cui sopra parlavo, siano quantomeno insufficienti ad inquadrare la questione.
Due orientamenti, entrambi semplicistici, di cui uno è il rovescio dell’altro e che, fondamentalmente, si costituiscono come le risposte tipiche dell’essere umano al fine di padroneggiare la complessità e la novità.
Quando cioè una questione è complicata oppure è difficilmente riconducibile a ciò che ci è noto, la tendenza è quella di prendere la via della riduzione, se non addirittura quella dell’evitamento.
E dunque, ripetiamo, quale posizione prendere?

Penso che una risposta giusta non ci sia e che in definitiva, come rispetto ad ogni cosa, ognuno sia chiamato a sviluppare un’interrogazione personale rispetto al problema, al fine di assumere una posizione critica che permetta di servirsi delle nuove possibilità che il mondo offre senza venirne schiacciato e completamente determinato.

Se per un verso infatti le nuove tecnologie rappresentano innegabilmente delle conquiste, degli strumenti che permettono all’uomo di amplificare le proprie potenzialità comunicative e relazionali, per un altro verso esse possono anche diventare una soluzione efficace per eludere tutte quelle difficoltà che il rapporto con il proprio simile implica: la difficoltà di comprendere gli altri, di conoscersi, di rispettarsi nelle differenze, di raggiungersi.

Se da un lato i nuovi media ci permettono di ampliare e di sviluppare la nostra capacità e la nostra necessità di costruire dei legami con gli altri, non bisogna però chiudere gli occhi sugli effetti francamente patologici e preoccupanti che essi sembrano avere prodotto.
A ben pensarci in fondo, essi, in quanto strumenti di relazione, a dispetto della loro giovane età, non fanno che partecipare della più antica questione che concerne l’uomo, quella della sua dipendenza dal rapporto con l’altro, ad un tempo indispensabile per la sua vitalizzazione e fonte inaggirabile della sua irrequietezza costitutiva.
E tale questione, questo è certo, non può che pretendere una risposta singolare.

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