ERVE – Mentre racconta il suo sguardo si perde nel vuoto come se quei momenti li stesse vivendo in quel preciso istante. Franco Milesi si ricorda tutto, il suo racconto è preciso. La sua antica cortesia gli impone di darmi del lei anche se potrei essere suo figlio. Un attimo di silenzio, poi sorride: “Cosa vuole, anche questi sono ricordi”.
La forza d’animo di quest’uomo è impressionante: classe 1924, è nato e cresciuto ad Erve, dove vive tuttora con la moglie Claudia Valsecchi con cui è sposato da 58 anni. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la chiamata alle armi come Alpino, a Merano, da dove è stato deportato in un campo tedesco per poi finire sul fronte russo. Il prossimo 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, riceverà la medaglia d’onore concessa dal Presidente della Repubblica.
“Era il luglio 1943 quando fui chiamato alle armi, mi mandarono a Tirano al 5° Alpini. Alla metà di agosto partimmo per Merano, nella località di Maia Bassa ci insegnarono ad usare la mitraglia. L’8 settembre l’armistizio, quella sera avvenne il finimondo: soldati che scappavano, rubavano, scassinarono perfino la cassaforte. Il giorno successivo, intorno alle 11, fummo raggiunti da due pattuglie tedesche che ci ordinarono di consegnare tutte le armi e ci lasciarono in caserma, senza cibo.Verso le 9 di sera del giorno dopo ci scortarono a Bolzano, dove ci lasciarono per qualche giorno nella caserma del 4° Genio prima di rinchiuderci in una tradotta diretta in Germania. Mi ritrovai nel campo di Luckenwalde”.
Nessuno sapeva il proprio destino, il primo e unico pensiero era sopravvivere e per farlo bisognava essere svegli: “Fui assegnato a una fabbrica dove si costruivano i vagoni dei treni. Una zuppa e 200 grammi di pane, questo era tutto ciò che ci davano da mangiare. Ricordo che a lavorare con me c’era un deportato russo di nome Nicolai, un comunista, infatti voleva essere chiamato Tovarìsh che in russo significa ‘compagno'”.
Nel campo di Luckenwalde ci rimase qualche mese, poi fu trasferito a Berlino: “Lì mi fecero fare il muratore sotto gli ordini di un ufficiale delle SS, un ingegnere ferito sul fronte russo. Era un uomo buono, alla mattina mi portava due fette di pane e il grazie che voleva in cambio era il buongiorno a Hitler. Il sabato pomeriggio, invece, mi portava a casa sua per fargli da giardiniere. Da Berlino fui portato a Königs Wusterhausen per costruire un casello della ferrovia, eravamo molto vicini al fronte Russo e si sentivano i colpi dei cannoni”.
Poi l’avanzata russa e la fuga dei tedeschi: “Nel nostro campo arrivarono i soldati russi e ci chiesero se c’erano soldati ‘nemetskiy’ (tedeschi, ndr) e io risposi che c’erano soltanto ‘ital’yanskiy’ (italiani, ndr). Se volevi sopravvivere dovevi imparare velocemente anche le lingue, se non capivi erano botte, perciò mi arrangiavo sia col tedesco che con il russo. Così ci portarono fuori dal lager e attraversammo la prima linea russa. Camminammo circa un mese senza mangiare, ci si faceva andar bene ciò che si trovava. I tedeschi erano scappati e sulle case erano appese bandiere bianche. Con me c’erano due amici Mario Rosa, classe 1915, di Lorentino e Giovanni Losa, classe 1912, di Calolzio, loro erano più esperti e in un solaio ricordo che riuscirono a trovare della carne secca. La pattuglia russa mi mise in cucina a pelare patate altrimenti dovevo stare di guardia e se arrivava qualcuno dovevo gridare ‘stoj’ (chi va là, ndr). Fortunatamente si mangiava e si sopravviveva bene”.
Alla fine ottobre del 1945 il rimpatrio con altri 1500 italiani: “Tutti cercavano di salire sulla tradotta, non ci lasciarono portare nulla. Arrivati in Austria ci bloccarono due giorni a Mittenwald, alle porte di Innsbruck, per farci la disinfestazione; c’era poco da mangiare ed eravamo sotto il comando della Croce Rossa. Finalmente una sera ripartimmo per l’Italia attraverso il Brennero e lì ricominciò la vita”.
Quali furono i momenti più brutti? “E’ difficile dirlo. La notte di Natale del 1943, per esempio, subimmo un bombardamento che colpì il comando tedesco, ricordo che quel Natale lo passammo senza cibo. In tedesco chiedevo quando sarebbe finita la guerra e la risposta era sempre la stessa ‘Ich weiss es nicht’ (non lo so, ndr). Ho visto morire un ragazzo di Consonno per deperimento organico. I momenti più difficili, forse, li ho vissuti a Berlino, durante i bombardamenti. Ricordo ancora il rombo, la terra che tremava, la polvere dei calcinacci che ti finiva giù per la schiena. Tutti ammassati dentro il rifugio: c’era chi piangeva, chi bestemmiava, chi chiamava la mamma… lì ho passato i momenti più brutti, ho ancora quelle scene davanti agli occhi”.
Il ritorno a Erve come è stato? “Niente di particolare, eravamo in tanti a essere tornati dalla guerra. Erano tempi duri e bisognava lavorare. E’ vero, c’era la povertà, ma la polenta non mancava mai. Ho lavorato tutta la vita come muratore, mi sono sposato e ho avuto un figlio”.
Milesi è rimasto legato a quell’esperienza che gli ha cambiato la vita perciò, con la sua famiglia, ha deciso di aiutare gli altri: “Attraverso alcune associazioni del territorio per alcuni anni abbiamo ospitato un ragazzo dell’Ucraina che vive in una condizione difficile. Si è creato un rapporto di amicizia con tutti i cittadini di Erve e ancora oggi, quando può, ci viene a trovare”.
Ci salutiamo, non prima di avermi fatto assaggiare la speciale wodka proveniente dall’Ucraina: “Adesso devo andare a dar da mangiare ai miei animali, ho 28 conigli”.
Mi chiudo la porta dietro alle spalle. Penso che tutto ciò che mi ha raccontato è la cruda realtà. Quanta saggezza porta con sè la semplicità. La memoria e l’esempio. A lui non piace apparire, ma quante cose ha ancora da insegnare.
Dopo aver ricevuto la Croce al Merito di Guerra nel 1973, il prossimo 27 gennaio, alle ore 11, in Sala Ticozzi a Lecco riceverà la Medaglia D’Onore: “E’ stato un mio consigliere comunale dal 1980 al 1985 – ha detto il sindaco di Erve Giancarlo Valsecchi -. E’ un onore per il nostro paese poter avere una persona come Franco Milesi”.