LECCO – Cos’è la felicità? Come si può essere felici? Si tratta di una situazione momentanea oppure la felicità può durare nel tempo? Questi e molti altri gli interrogativi ai quali Salvatore Natoli, docente di Filosofia teoretica presso l’Università Statale di Milano Bicocca, ha provato a rispondere nella serata di martedì 19 marzo presso la sala conferenze di Palazzo Falck. Un incontro, quello con Natoli, che fa parte del ricco calendario di Leggermente 2013.
Di fronte a un auditorium gremito di persone, il filosofo ha quindi esordito con una frase d’impatto: “la felicità può essere mancata”. Un modo, quindi, per dire che non si tratta di qualcosa di semplice da raggiungere, “soprattutto se non siamo in grado – ha spiegato – di valorizzare una nostra predisposizione, se non riusciamo a capire chi siamo. In altre parole potremmo dire che se non siamo felici è perché abbiamo sbagliato le nostre valutazioni e, quindi, non siamo stati capaci di esserlo”.
Una lunga riflessione sul tema, che a partire da questa premessa ha cercato di guidare i presenti verso una maggiore consapevolezza della felicità. “Definire questo concetto – ha spiegato Natoli – non è semplice: diciamo che si tratta sempre di esperienze sublimi, esatto opposto della sofferenza. Il fatto stesso di soffrire significa, però, che abbiamo provato la felicità. L’infelicità è, infatti, una mancanza, un senso di perdita. Oltre a questo – ha continuato – dobbiamo dire che tante volte tendiamo a cercare insistentemente la felicità in qualcosa che, in realtà, non può darcela: la felicità ci raggiunge all’improvviso, irrompe nella nostra vita quando meno ce lo aspettiamo, è uno scarto, un salto. Allo stesso modo, però, la felicità ci abbandona e in linea di massima non possiamo trattenerla”.
Ma questo significa, quindi, che siamo destinati a vivere solo momenti sporadici di felicità? “C’è una connessione stretta – ha precisato – tra questo concetto e quello di “virtù” greca, intesa come abilità, intelligenza, capacità di superare gli ostacoli, di affrontare le cose. Chi è virtuoso può rendere stabile la felicità, ma questo significa esercizio costante, grande apertura all’incontro con l’altro, capacità di essere curiosi e di meravigliarsi per quanto ci circonda, per l’ordinario che diventa straordinario. Di fronte alla mela caduta dall’albero Newton avrebbe potuto mangiarla o magari lanciarla altrove preso da uno scatto d’ira, mentre invece quell’episodio ordinario è stato visto con un occhio diverso, con meraviglia, dando il via a una riflessione che ha portato Newton a teorizzare la legge di gravità. Questo è un esempio di atteggiamento del virtuoso. Questo – ha aggiunto – un modo per essere felici”.
In sintesi, quindi, chi riesce a coltivare un approccio virtuoso, allora potrà essere felice, anche in caso di situazioni avverse “come malattie o gravi perdite. Chi ha la virtù – ha sottolineato – riesce a superare anche i momenti di difficoltà”.
Centro della riflessione è diventata a questo punto la società: uno stile di vita che ci spinge verso un consumismo sfrenato non faciliterebbe, infatti, l’esercizio virtuoso e, quindi, la felicità. “Spesso ci troviamo a inseguire delle cose – ha ripreso il professore – convinti che il loro possesso possa renderci persone felici. In realtà il senso di sazietà che questo stile di vita genera ci rende tutti dormienti, ci fa morire. Il punto non è possedere le cose, che sono al di fuori di noi, ma entrare in rapporto con loro. L’incontro con le persone, con il mondo e anche con le cose deve essere visto come un accordo, un atteggiamento volto all’interrogazione, alla riflessione, all’apertura. Certo si tratta di un’operazione impegnativa, spesso è più semplice amare ciò che ci addormenta o, all’opposto, che ci stimola continuamente, eccitandoci in modo esagerato. La nostra società è oggi composta, infatti, da due categorie di persone: gli eccitati e i depressi. Da qui le innumerevoli visite dagli psicoanalisti. Basare tutto sul possesso di oggetti non è la strada per la felicità. Per essere felici bisogna incalzare il mondo con domande, un po’ come ha insegnato Socrate, capire cosa è utile e cosa superfluo, conoscere noi stessi, gli altri e l’idea che gli altri hanno di noi. In poche parole – ha concluso – bisogna essere virtuosi”.