LECCO – Ottavo premio al Romanzo Storico a Boris Pahor e premio alla Carriera a Emanuele Severino. Due grandi personalità che nel pomeriggio di venerdì presso la Casa dell’Economia di via Tonale hanno ricevuto i due riconoscimenti, entrambi parte del Premio Internazionale Alessandro Manzoni – Città di Lecco.
Promosso dall’associazione 50&Più con la collaborazione del Comune di Lecco e del Centro Nazionale di Studi Manzoniani di Milano, il premio è stato inaugurato nel 2005 con l’intento di premiare ogni anno il romanzo storico considerato dalla giuria particolarmente meritevole. Dal 2008, poi, a questo riconoscimento se n’è aggiunto uno speciale, dedicato a esponenti del mondo della cultura in generale e che abbiano colto l’insegnamento di Manzoni, traducendolo in contesti anche diversi da quello letterario. Umberto Eco, Ermanno Olmi, Luca Ronconi, Mario Botta e, proprio venerdì, Emanuele Severino hanno quindi ricevuto il Premio alla Carriera.
Dopo la letteratura, il cinema, il teatro e l’architettura, quest’anno è stata la volta, infatti, dell’ambito filosofico, tanto che Severino è stato premiato all’unanimità dalla giuria con la motivazione ufficiale di essere “un grande filosofo che con il suo pensiero ha illuminato questi nostri anni di straordinario sviluppo tecnologico e di sempre maggiore stupore di fronte al mistero della vita umana, al suo manifestarsi e occultarsi. “Se mi è stato torlo molto, è perché ho avuto molto”, ha scritto Severino nell’autobiografia pubblicata di recente da Rizzoli. Ed è, questa, la coerente confessione di un intellettuale che può essere definito uno studioso “diversamente cristiano”. E comunque un maestro”.
Il filosofo, nato a Brescia nel 1929 e definito da Massimo Cacciari un gigante della filosofia, è stato quindi accolto nell’Auditorium della Camera di Commercio e ha intrattenuto i presenti con un intervento sul tema del sacro e della tecnologia. “Mi sono domandato – ha esordito Severino – il perché di un simile premio, conferito da una giuria che potremmo definire manzoniana. Ho riflettuto, quindi, sugli Inni sacri di Manzoni, sul carattere decisivo che ha il sacro sulla storia dei popoli. Ho ripensato ai miei studi, tanto incentrati sulla figura di Leopardi e in parte anche sullo scrittore milanese, che non può essere definito un filosofo grande quanto il primo ma sicuramente un filosofo autentico. Ho ripreso l’ode Il cinque maggio, dove Manzoni parla di un “Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola”, temi trattati negli anni a seguire dalla filosofia”.
Un intervento di una ventina di minuti, durante il quale Severino ha affrontato la tematica della relazione tra il sacro e la tecnologia. “Se pensiamo alla nostra civiltà, ossia quella della tecnica – ha spiegato – possiamo dire che è lontana dal mondo del sacro. Crediamo, quindi, che la tecnicità di questi tempi sia estremamente distante dal sacro. In realtà stiamo andando in una direzione in cui semplicemente si invertiranno i rapporti tra le due: non saranno più la politica o la religione a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica stessa a servirsi di queste. E cosa dire, quindi del sacro? Sembra che la distanza tra sacro e tecnica sia incolmabile, invece c’è un carattere tecnico del sacro e un carattere sacro del tecnico, in cui quest’ultimo si sta sostituendo al sacro nella guida dei popoli”.
Terminato l’intervento di Severino e consegnato il Premio alla Carriera 2012, l’attenzione si è finalmente spostata sul vincitore del Premio al Romanzo Storico, lo scrittore sloveno ma di cittadinanza italiana Boris Pahor, che insieme alla giornalista Cristina Bottocletti è autore del libro “Figlio di Nessuno. Un’autobiografia senza frontiere”, edito da Rizzoli. Motivazione ufficiale fornita dalla giuria e letta dal suo presidente Matteo Collura è la seguente: “un uomo venuto al mondo all’inizio del secolo scorso, è personaggio rappresentativo e simbolico della nostra epoca. Nato a Trieste in una famiglia slovena, ha sofferto l’esperienza di quanti furono considerati “figli di nessuno”, e perciò privati dei loro confini fisici e spirituali. La dedica che egli ha voluto per il suo ultimo libro ne è il miglior viatico, che la Giuria di questo Premio fa proprio: In memoria delle vittime del periodo fascista, del nazismo e della dittatura comunista”.
“Quando ho saputo di aver vinto il premio Manzoni – ha commentato lo scrittore, quasi centenario – sono rimasto meravigliato. Mi fa molto piacere che questo libro, che racconta la mia vita, possa essere inteso come un racconto di verità storica. Quello che abbiamo scritto è purtroppo comprensibilissimo a tutti, parla di come l’uomo sia sempre portato a dominare gli altri. Credo che bisognerebbe vivere – ha continuato – ricordando tutto quello che è successo durante il secolo scorso, ma non soltanto in occasione delle ricorrenze o studiando il nome di personaggi famosi, che in realtà hanno solo causato morti”.
Un volume, quello premiato, che racconta una vita trascorsa nelle terre di confine e segnata dalle discriminazioni. La guerra, la deportazione, la Resistenza sono quindi alcuni degli eventi protagonisti della vicenda narrata, una vicenda in cui avvenimenti storici e vissuti privati si intrecciano. Una vita intera, che ha inizio quando ancora Trieste è parte dell’impero austro-ungarico e che conosce tutte le trasformazioni e le violenze del XX secolo, dalla prima guerra mondiale all’avvento del fascismo, dalla guerra in Libia alla Resistenza partigiana slovena, dalla deportazione in numerosi campi di concentramento all’opposizione al regime di Tito in Jugoslavia. Un modo per non dimenticare tutte “le vittime – ha concluso Pahor – del fascismo, del nazismo e della dittatura comunista”.