Nasce “Il Branchiosauro”, 31 nuovi itinerari di arrampicata tecnica ed elegante
Ma è anche l’occasione per riaccendere i riflettori sui (pochi) chiodatori, senza di loro non ci sarebbe l’arrampicata in falesia
LECCO – La falesia “Il Branchiosauro” è solamente l’ultima della lunga serie di creazioni di Delfino Formenti, chiodatore lecchese che non ha bisogno di presentazioni e nella sua quarantennale attività ha disegnato oltre 500 itinerari di arrampicata sportiva. “Il Branchiosauro” è un grande muro di ottima roccia verticale o appena aggettante sulla sponda orientale del lago, ai confini della città di Lecco, dove prevale una arrampicata tecnica ed elegante. Non mancano sezioni fortemente strapiombanti con arrampicata molto fisica, ed un settore meno verticale di rocce articolate. Alla base, in perfetto stile Delfino, gradini e panchine.

Una falesia di gran classe, adatta a diverse capacità. La storia di quella falesia parte da lontano, sulla parete erano già presenti una manciata di tiri, ad opera di Giuseppe “Ciusse” Bonfanti, poi Delfino Formenti ha riattrezzato tutti gli itinerari e ne ha creati altri (più che triplicandoli) fino ai trentuno attuali. Come suo solito, ci ha lavorato da solo a partire dall’autunno 2006 sfruttando un periodo di cassa integrazione. Dopo la pausa Covid, ha ripreso il progetto con grande assiduità. Anche in questo caso, il suo background alpinistico gli ha consentito di gestire una situazione logisticamente complessa, su una struttura alta oltre 40 metri, la cui sommità è stata raggiunta da Delfino salendo in solitaria su terreno esposto e insidioso. Iniziato il posizionamento dei primi punti di calata sommitali, gli altri sono stati fissati spostandosi lateralmente in auto-assicurazione, utilizzando tecniche derivate dall’esperienza ultra quarantennale.

Fin qui tutto bene. Già questa sarebbe una notizia anche perché, a detta degli “addetti ai lavori”, la falesia è uno spettacolo anche se, vista la firma, nessuno ha mai nutrito dubbi. Gli itinerari sono frequentati da arrampicatori provenienti da tutta la Lombardia e non solo e non mancano turisti dall’estero. Questa disciplina sta vivendo un momento di esplosione e non è raro vedere nei week-end arrampicatori in fila ai piedi della parete. Ma cosa c’è dietro alla chiodatura di una parete? Forse è bene fare un approfondimento visto che, soprattutto in questi anni, sono troppi gli arrampicatori che sfruttano questo “parco giochi gratuito” senza sapere le nozioni minime di storia dell’arrampicata e, soprattutto, ignorando il lavoro dei chiodatori.

Ad aiutarci in questo intento è Pietro Corti (che ringraziamo per lo scritto che pubblichiamo qui sotto), arrampicatore, grande appassionato e studioso di storia dell’arrampicata e della montagna.
Un po’ di storia…
L’arrampicata sportiva nel lecchese nasce all’inizio degli Anni ’80 del secolo scorso, quando l’alpinista e scalatore Marco Ballerini inserisce i primi spit al Sasso di Introbio calandosi dall’alto. Fu una specie di rivoluzione per un territorio dalla forte tradizione alpinistica, che concepiva l’apertura di una via nuova salendo rigorosamente dal basso.

Da allora il fenomeno si è espanso a dismisura e oggi migliaia di persone frequentano le falesie attrezzate per l’arrampicata sportiva. Lecco, con decine di strutture rocciose sparse nei dintorni, sulla sponda del lago, alle pendici di San Martino e Resegone o nella vicina Valsassina, è un centro di arrampicata sportiva molto conosciuto. Fix o resinati (ancoraggi che proteggono l’arrampicatore in caso di “volo”), però, non spuntano dalla roccia come i funghi. Ogni itinerario richiede ore e giorni di fatica, sia per la preparazione che per la “chiodatura” vera e propria. Un lavoro molto faticoso, e costoso, effettuato da pochissimi scalatori appassionati a titolo di volontariato.

In alcuni casi, poi, ci sono i lavori commissionati dalle amministrazioni. Nel lecchese, l’ultimo (dei pochissimi) di questo tipo, concluso nel 2017, ha riguardato la manutenzione straordinaria di alcune falesie del territorio nell’ambito di un Accordo di Programma promosso da Regione Lombardia, con la partecipazione della Comunità Montana Lario Orientale Valle San Martino e Comunità Montana Valsassina Valvarrone Val d’Esino e Riviera quali soggetti attuatori degli interventi, del Collegio Regionale Guide Alpine Lombardia e del Comune di Lecco, Provincia di Lecco e Camera di Commercio di Lecco. Un lavoro importante, svolto dalle Guide, tuttavia limitato (per usare un eufemismo) alla decina di falesie interessate dal progetto.

La verità è che l’arrampicata sportiva nel lecchese non si sarebbe sviluppata senza il lavoro dei chiodatori volontari, la cui opera si rivela indispensabile sia per la manutenzione che per la scoperta e l’attrezzatura di nuovi siti per l’arrampicata. Il discorso sarebbe molto più articolato, ma correva l’obbligo di sintetizzare al massimo questa premessa, consapevoli dell’importanza del tema per un territorio come quello lecchese, che ha ancora molte potenzialità inespresse per sviluppare un turismo “outdoor” già presente in molti comprensori europei.
No chiodatore, no arrampicata sportiva in falesia
Partendo proprio dalla recente apertura della nuova falesia “Il Branchiosauro” sulla sponda orientale del lago di Lecco, è importante raccontare l’opera di Delfino Formenti, decano dei chiodatori lecchesi. Una storia che vale la pena conoscere. Quella del chiodatore, infatti, è una figura spesso disconosciuta dagli stessi scalatori che non si pongono troppe domande su chi devono ringraziare per le loro giornate di arrampicata in falesia.

A Delfino Formenti si deve sicuramente tanto. Lecchese doc, classe 1957, inizia a scalare come tutti i giovani della zona in quell’epoca: Medale, Grignetta, Dolomiti… Prestissimo si dedica alla ricerca di terreni alternativi per la scalata che, nei primissimi Anni ’80, trova proprio sulle pareti intorno a Lecco con alpinisti del calibro di Dario Valsecchi e Daniele Chiappa (Ciapìn, uno dei quattro Ragni di Lecco per primi in vetta al Cerro Torre per la parete Ovest). Quelli sono gli anni del cambiamento dell’alpinismo. Ancora non si parlava di arrampicata sportiva, ma su queste “nuove” pareti del lecchese (e non solo), prima del tutto ignorate, già si scalava in modo diverso.

Un esempio sono le strutture di Introbio, scoperte dal sacerdote educatore Don Agostino Butturini e dai suoi giovanissimi “Condor di Lecco”, oppure l’Antimedale o le numerose pareti esplorate dal milanese Ivan Guerini sul San Martino sopra Lecco. Sempre più spesso si sentiva parlare di arrampicata in libera (non si usano gli ancoraggi per progredire ma solo come assicurazione) e l’approccio alla scalata stava cambiando a velocità supersonica.

Sulla scena fa il suo ingresso Delfino: capelli lunghi raccolti con una fascia, pantaloni colorati, scarpette con la suola di gomma. L’ho in mente così, al Sasso di Introbio, con un “mangiacassette” appeso all’imbragatura. Non solo piccole pareti ed esperimenti di “free climbing”, Delfino nel 1981 partecipa alla prima invernale della via del Rifugio (800 metri di dislivello) al Croz Dell’Altissimo nel Brenta, con Danilo Valsecchi e Luca Borghetti. Anche per lui, però, arriva presto il richiamo dell’arrampicata sportiva e iniziano i viaggi nei santuari di questa nascente specialità, come le falesie di Finale Ligure e del Verdon, in Provenza.
Delfino comincia a chiodare
A Lecco, nei primi Anni ’80, si contano una manciata di itinerari di arrampicata sportiva, così “il Delfo” decide di darsi da fare; le possibilità non mancano. I problemi sono il materiale e il tempo a disposizione, che per chi lavora non è mai molto. All’inizio si arrangia con un trapano di seconda mano e con ancoraggi di recupero, poi qualche aiuto arriva, dando l’avvio alla lunghissima stagione da chiodatore che non è più terminata.

Già l’esordio è stato particolare. L’obiettivo era la parete del Melgone, a picco sul lago, lungo la strada costiera per Bellagio. Per raggiungere la sommità del settore messo nel mirino, Delfino sale per canalini e rampe assai esposte, mettendo a frutto l’esperienza maturata nelle infinite scorribande di bambino su tetti e alberi. Nel 1986 è la volta della grande falesia di Versasio. Da allora una attività impressionate: più di dieci falesie chiodate, per circa venti settori e oltre 500 tiri di corda. Di questi, una gran parte è stata ripresa in più occasioni per la manutenzione.

Un’attività svolta in solitaria, occupandosi, oltre che di attrezzare gli itinerari, di costruire terrapieni e gradini alla base delle pareti per consentire un migliore spazio di manovra per le cordate. E poi l’opera di manutenzione, che diventa parte integrante della sua attività, alternandosi alla fase creativa vera e propria. “Individuare una struttura vergine, immaginare con lo sguardo i nuovi itinerari, poi trovare la linea più elegante e posizionare le protezioni, quindi salire dal basso i tiri man mano realizzati godendo del mio ‘lavoro’ – dice Delfino Formenti -. Alla fine la parete non mi appare più un bel pezzo di roccia qualsiasi, ma diventa per me un luogo che ha subìto una piccola metamorfosi per mano mia”.

Grandi soddisfazioni ma…
E’ inutile sottolineare che Delfino Formenti prova grande soddisfazione nel vedere le sue falesie sempre più frequentate, ma non nasconde qualche preoccupazione per il comportamento degli scalatori… Oggi più che mai è necessaria un’opera di sensibilizzazione sul rispetto della natura, sulla convivenza con gli altri frequentatori e sul lavoro del chiodatore. Talvolta, infatti, si assiste ad un approccio “uso e consumo”. Una preoccupazione condivisa da un altro attivissimo chiodatore nel lecchese: Alessandro Ronchi di Vimercate, a cui si deve un numero altrettanto imponente di tiri sviluppati con l’aiuto di diversi collaboratori.

Basterebbe così poco… se ognuno si prendesse cura personalmente, con piccoli gesti, della falesia che frequenta: portare a casa i rifiuti, pulire gli appigli dal proprio magnesio (la polvere utilizzata per migliorare la presa delle dita), considerare che in falesia non si è da soli e tutti devono poter scalare serenamente. Le falesie rappresentano un enorme patrimonio a disposizione di tutti, costruito con grande fatica fisica e sacrifici economici, senza alcun compenso in cambio. Un patrimonio che il territorio spesso fatica a riconoscere, tanto che, a parte qualche lodevolissima iniziativa di sostegno, il chiodatore si trova spesso in difficoltà. Va tenuto presente però che “no chiodatore, no arrampicata sportiva in falesia”.
- Per informazioni e avvertenze: larioclimb.paolo-sonja.net
- Per contribuire concretamente all’attività di chiodatore di Delfino Formenti: https://ko-fi.com/unchiodointesta