LECCO – Il nostro territorio si distingue per alto numero di donatori di sangue, tanto che “la quantità raccolta supera abbondantemente il fabbisogno della provincia di Lecco. Il 50 % del sangue viene quindi utilizzato nel lecchese, mentre tutto il resto è costantemente inviato a realtà assistenziali lombarde, ma non solo”. A parlaci di donazioni, trasfusioni, malattie ematologiche e certificazioni della qualità del sangue da utilizzare in ospedale è Daniele Prati, direttore di Medicina Trasfusionale all’Ospedale Manzoni di Lecco (nella foto, sopra). Un tema complesso, quello che abbiamo approfondito con il primario, perché al di là dell’attività di raccolta, analisi e scomposizione del sangue inviato dalle Avis del territorio, il lavoro dell’equipe del dottor Prati include un attento studio di laboratorio, che permetta di accertare la compatibilità tra donatore e paziente e di certificare il sangue stesso e individuare la presenza, rara stando alle statistiche, di eventuali malattie infettive.
Ma partiamo dall’inizio e proviamo a conoscere meglio il lavoro del personale di Medicina Trasfusionale. “Innanzitutto – spiega Prati – è nostro compito raccogliere i campioni di sangue che ci vengono inviati dalle Avis del territorio. Il loro ottimo lavoro, ben radicato nel lecchese, ci permette di disporre di una quantità di sangue più che sufficiente per soddisfare il fabbisogno locale. I campioni raccolti – continua – vengono in seguito analizzati, così da individuare l’eventuale presenza di malattie infettive e valutare i donatori da un punto di vista medico. Il sangue viene quindi scomposto nei vari componenti utili, ossia il plasma, che può essere utilizzato sui pazienti o inviato a ditte farmaceutiche che ne estraggono il necessario dal punto di vista clinico, i globuli rossi e le piastrine. Come dicevamo, per quanto riguarda il plasma soltanto il 50 % di quello raccolto viene utilizzato al Manzoni e nelle strutture cliniche lecchesi: il resto viene inviato ad altre realtà assistenziali lombarde, in particolare al San Raffaele e all’ospedale di Monza e in certi casi anche oltre i confini regionali, ad esempio in Sardegna”.
Ma, come anticipavamo, il lavoro dell’equipe del dottor Prati non si esaurisce in quanto detto sinora. Sono compito di Medicina Trasfusionale, infatti, anche le attività cliniche destinate, come si può immaginare, alle terapie trasfusionali e alla diagnosi e cura di pazienti con malattie ematologiche. “Con quest’ultimo concetto si intendono – riprende il direttore – le patologie associate a tumori, curate in collaborazione con il reparto di Oncologia, e le anemie e carenze di varia natura, gestite e curate da noi. La nostra – prosegue – è una struttura disegnata come un day hospital” e che giusto pochi mesi fa si è trasferita in un’unica area insieme alla Medicina. “Si tratta di una decisione presa per permettere un approccio integrato per la cura di pazienti complessi. Specialisti diversi si trovano, quindi, a lavorare insieme per diagnosticare e trattare in modo più efficace ed efficiente le malattie del sangue e del fegato”. Per quanto riguarda le prestazioni, poi, fornire dei numeri precisi sull’attività del reparto non è semplice: “i pazienti vengono in genere visitati più volte l’anno, però posso dire – afferma – che ci occupiamo di circa un migliaio di persone annualmente e che registriamo circa venti accessi giornalieri, di cui mediamente dieci sono per trasfusioni.
Buoni livelli di specializzazione – prosegue – portano il reparto di Medicina Trasfusionale a svolgere, inoltre, indagini di laboratorio e a diagnosticare la presenza nei campioni dell’intera area geografica di epatiti virali e di HIV. Negli anni abbiamo acquisito una buona competenza su queste malattie, che in genere – precisa – riguardano persone apparentemente sane. Sviluppiamo, quindi, costanti indagini di biologia molecolare proprio per potenziare la diagnostica delle epatiti acute o croniche e delle infezioni da HIV”. Sì, perché anche se i numeri sono rassicuranti, non si esclude la possibilità che il sangue donato si tramuti in veicolo per la trasmissione di malattie infettive e, proprio per questo, sono necessarie indagini attente. “Raramente riscontriamo simili malattie nel sangue donato – rassicura il direttore – e in genere si tratta di donatori che vengono più volte: solo nello 0,5 % dei casi si tratta, infatti, di persone che donano per la prima volta, per il resto i dati dimostrano che ogni anno circa dieci donatori ormai stabili contraggono la malattia tra un prelievo e l’altro. La medicina compie costantemente passi in avanti, ma è chiaro che non si possono individuare tutti i virus esistenti: ce ne sono sempre di nuovi e talvolta non esistono ancora dei test capaci di individuarli. Una buona emovigilanza – conclude – aiuta a riconoscere eventuali eventi avversi: abbiamo infatti collaborato con altri sei centri europei per creare un sistema in grado di studiare le eventuali variazioni nel sangue, individuare un nuovo agente infettivo e capire come si è trasmesso”.