LECCO – Da Lecco all’Arabia Saudita per fare ricerca e cercare di trovare una cura al cancro. Cristiano Di Benedetto è nato e cresciuto nel rione di San Giovanni, a Lecco. Dopo il diploma di geometra, si è laureato in biologia all’università di Milano dove ha intrapreso la carriera accademica fino all’età di 40 anni. Oggi di anni ne ha 42 e in mezzo c’è un’esperienza da ricercatore in campo medico in un paese pieno di opportunità e contraddizioni.
“Sono un biologo e sono specializzato nella preparazione di campioni biologici per microscopia elettronica. In Arabia Saudita ho lavorato su culture cellulari usate nella ricerca. Nello specifico abbiamo lavorato su cellule di glioblastoma di ratto (tumore al cervello di ratto) trattate con nanoparticelle metalliche (diametro nell’ordine di pochi nanometri). Lo scopo finale della ricerca era vedere se, trattando le cellule tumorali con queste particelle, riuscivamo ad ucciderle. Il vantaggio di usare nanoparticelle risiede nel fatto che queste possono, almeno in teoria, essere ‘funzionalizzate’ per andare a trovare solo le cellule tumorali e lasciare stare quelle sane”.
Una ricerca molto avanzata in campo medico: “Il concetto di base è quello di somministrare particelle metalliche che sono anche magnetiche a persone con un tumore (in realtà la ricerca è ancora a livello di colture cellulari, la sperimentazione su uomo richiederà ancora anni e grande fatica). Queste nanoparticelle vengono internalizzate (mangiate) solo dalle cellule tumorali quindi, applicando dei campi magnetici, si fanno vibrare. Vibrando, le nanoparticelle creano calore uccidendo le cellule tumorali (hyperthermia) e lasciando intatte le cellule sane”.
Quindi si è aperta la porta verso l’Arabia Saudita: “E’ stata un po’ una coincidenza, in quel momento finivo il mio assegno di ricerca all’università di Milano. Perché in Arabia Saudita? C’è questo grandissimo centro di ricerca, un campus enorme, il King Abdullah University of Science and Technology (Kaust). Un centro avanzatissimo, in pieno deserto, di fronte al Mar Rosso. E’ totalmente autosufficiente e ci sono due check point per entrare. Un luogo che raccoglie migliaia di accademici, molti dei quali arrivano con famiglia, senza contare poi tutti quelli che lavorano per la manutenzione ordinaria del campus. La circonferenza è sulla ventina di chilometri.
L’Arabia Saudita, si sa, ha anche un altro volto: “E’ un paese dove non puoi entrare se non hai un contratto di lavoro e uno sponsor interno. E’ uno dei paesi più chiusi al mondo. La fase di assunzione, benché sia stata diretta, è durata oltre tre mesi. Per quanto riguarda le regole, all’interno del campus sono più permissive rispetto all’esterno. Ad esempio le donne possono girare vestite ‘normalmente’ e possono guidare, cosa che normalmente non è consentita all’esterno. Non si possono assolutamente bere alcolici e mangiare maiale e derivati . Il rischio è quello di essere espulsi dal campus e, se dovesse succedere fuori, si rischia la galera. In Arabia Saudita sono particolarmente severi su questo punto”.
Gli stipendi sono da favola come si dice? “Quando vai in posti come quello sai che prenderai dei bei soldi, ma devi essere disposto a fare un po’ vita da recluso. Gli stipendi partono dai 5000 dollari per un postdoc e si raggiungono cifre molto più alte. Il posto è una enclave occidentale nel bel mezzo di un paese medio orientale. Una bolla con tutti i comfort di questo mondo: centri sportivi, spiaggia, negozi, ottimi ristoranti e supermarket. Il fatto è che ogni tre-quattro mesi devi uscire, giusto per cambiare aria e staccare la spina. La vita è piuttosto tranquilla e piacevole, ma i giorni tendono a ripetersi tutti uguali: per andare al lavoro ci metti meno di 5 minuti, ti alzi e vedi l’ufficio da casa tua”.
La ricerca, però, è decisamente all’avanguardia: “Come strumentazioni hanno di tutto, sono rimasto estasiato. Basti pensare che a Milano lavoravo con due microscopi elettronici, li ne hanno almeno una decina e l’ultimo che hanno comprato è stato pagato circa 5 milioni di dollari”.
Quello che conta, però, è il lavoro del ricercatore: “Avendo le idee molto chiare e tempo si possono fare grandi cose. Questo tipo di ricerche durano anni e io ho solo cominciato a fare qualcosa. Però si può fare veramente tanto. E’ stata una bella esperienza? Assolutamente si, lavorativamente avrei potuto fare di più, non nascondo di avere dei rimpianti, ma il giudizio è sicuramente positivo. Dal punto di vista umano, invece, mi sento di dare il massimo dei voti: ho incontrato bella gente”.
Ora, però, si cambia vita: “Il mio contratto sarebbe scaduto a breve. Ho deciso di rassegnare le dimissioni con un mese di anticipo e cercare un altro lavoro. Esiste un sito molto famoso per i microscopisti (European Microscopy Society), ho mandato il curriculum e mi hanno richiamato subito. Mi è arrivata un’offerta di lavoro da Copenaghen, il primo dicembre sarò operativo nel nuovo centro, un po’ più piccolo rispetto al Kaust, ma altrettanto avanzato. Passo da un paese caldissimo e vado 6mila chilometri più a Nord”.
Offerte dall’Italia non ne sono arrivate? “In realtà ho avuto un paio di ottime occasioni, ma il ‘posto fisso’ l’avrei forse visto a 50 anni. In Danimarca mi hanno garantito subito una permanent position. Nel nostro Paese è decisamente più complicato. E poi, avendo assaggiato un po’ come funziona all’estero, l’idea di tornare in Italia non mi allettava più di tanto. Il rimpianto è che queste cose, forse, avrei dovuto farle quando avevo 30 anni. Il mio consiglio? Non bisogna mai sottovalutarsi, soprattutto nel confronto con l’estero, e bisogna avere il coraggio di partire e fare esperienze”.