Montagna. Era il 1970 e Messner iniziava la sua rincorsa agli 8000

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Renato Frigerio intervista il fortissimo alpinista altoatesino

L’articolo dell’aprile 1970 apparso su “Lo Scarpone”, rivista del Cai

LECCO – Da Renato Frigerio, volto noto del mondo della montagna in ambito culturale, uno spunto per trascorrere queste giornate da reclusi a causa del coronavirus.

“Per passatempo e curiosità ho avuto modo di recuperare questa intervista a Reinhold Messner. Il 1970 ricorre spesso anche nell’ordine dei ricordi lecchesi legati al tentativo della spedizione alla Ovest del Cerro Torre, guidata da Carlo Mauri, che ha il merito, senza alcun dubbio, di aver dato entusiasmo e portato la giusta mentalità patagonica nel nostro ambiente. Sono passati 50 anni e per Messner è stata la volta dell’esordio con la spedizione avente come obiettivo gli 8000. Questa spedizione alla parete Rupal, composta da alpinisti tedeschi e austriaci e dagli italiani Reinhold e Gunther Messner, diretta da Karl Maria Herrligkoffer, in memoria di Siegi Low, è stata organizzata dal DIAF, Deutsche Institut fur Auslandsforschung. E il fatto è tutto tranne che un dettaglio, dal momento che stiamo parlando di un assoluto fuoriclasse, che ha dato l’impronta all’alpinismo himalayano e che in 16 anni ha scalato tutti i 14 ottomila, realizzando un eccezionale primato”.

L’intervista dell’aprile 1970 apparsa su “Lo Scarpone”

Di seguito l’intervista rilasciata da Reinhold Messner a Renato Frigerio e apparsa nel mese di aprile del 1970 su “Lo Scarpone”, rivista del Club Alpino Italiano.

Qual è il segreto della tua preparazione fisica e morale che ti ha consentito di raggiungere livelli così alti nell’alpinismo?, chiedo a Reinhold Messner e la risposta è immediata e precisa:
“Vado in montagna da vent’anni. Venendo dai seimila delle Ande mi sentivo tanto allenato da poter fare sul Bianco tutto quello che volevo. Dal Bianco sono ritornato nelle Dolomiti e lì sui tremila metri non sentivo stanchezza. Per la preparazione morale: non sono mai “volato” in vita mia su un passaggio in libera. Ho fatto molte vie classiche in solitaria. Per le solitarie sono partito spontaneamente, spesso anche di pomeriggio. Da solo arrampico più leggero, meglio…”

Ed ecco la mia seconda domanda: come vedi schematicamente l’alpinismo solitario e quello invernale?
“L’alpinismo solitario per me è la forma più completa dell’alpinismo. Non è per la solitaria in sé: per me la solitaria non è scopo, è mezzo. Non rischio la vita per compiere una solitaria, non cerco un rischio più intenso attraverso la solitaria, cerco una vita più intensa. Risolvendo tutti quei problemi, vivendo in un ambiente, tanto grandioso, mi sento uomo, niente di più. È più semplice andare da soli e mi dà anche una risposta più semplice”.

E l’alpinismo invernale?
“Per quanto riguarda l’alpinismo invernale, due sono le direttrici: lo scialpinismo e le invernali delle pareti difficili. Quest’ultima forma è una conseguenza logica dell’alpinismo e delle difficoltà. Non è giusto per me fare una prima assoluta d’inverno, perché va persa l’eleganza, con la quale questa via potrebbe essere aperta d’estate”.

Quali giudichi le tue maggiori imprese, e per quali ragioni?
“Imprese maggiori: non posso fissarmi su una, né su dieci. Cito quattro per ogni specie di arrampicata:

  • ripetizioni: “via dell’Ideale” alla Marmolada (prima ripetizione); “via Livanos” al Monte Cavallo (prima ripetizione); “Sudovest” del Burèl di Schiara (prima ripetizione); “Pilone Centrale” del Monte Bianco (in giornata).
  • invernali: “Nord” dell’Agnèr (prima invernale); “Nord” della Furchetta (prima invernale); Spigolo dell’Agnèr (prima invernale); “Pilastro” della Tofana di Rozes (terza invernale).
  • prime assolute: Civetta – parete Nordovest” – “via degli amici”; Monte Cavallo – pilastro di mezzo; Ortles – parete Nord – per il seracco centrale; Yerupajà – parete Est – via diretta.
  • prime solitarie: “Direttissima” della Marmolada di Rocca (prima assoluta); “Philipp- Flamm” al Civetta; “Nord” delle Droites al Bianco; “Soldà” al Sassolungo.

In quanto alla seconda parte della domanda dirò: perché mi hanno dato una soddisfazione più grande. Perché sono sogni realizzati. Perché mi hanno ridato la vita. Perché mi hanno insegnato a vivere con semplicità… tante sono le vie, tante sono le risposte”.

In che cosa consiste per te la “vera” grandezza di un alpinista?
“È difficile dirlo. Lo sento più che vederlo. Nel sapere vivere “l’inutile” forse. Vivendo fra la roccia e il vento, fra le stelle e i fiori, è possibile riconoscere le leggi semplici della vita umana. Leggi che si perdono man mano ci perdiamo in un mondo troppo tecnico, troppo febbrile, troppo sicuro. L’alpinismo è una forma, una filosofia di vita. Si può viverla anche altrove. Si può impararla in montagna soltanto. Chi ci riesce e chi la vive è un grande alpinista…”.

Che rapporto c’è in montagna tra l’azione e il sentimento?
“Sentimento ed azione non si possono dividere. Più fatiche, più rischi, più sofferenze, più gioie. È una semplice legge questa. Vale più che mai. L’avventura dell’azione influisce molto sul sentimento. L’azione è fondamentale per l’alpinismo. Senza questa l’alpinismo va perso… resta forse un sentimento di meraviglia… È questo il segreto della montagna: che è infinita in confronto a noi uomini, ma ciò nonostante può essere scalata da noi”.

Messner sarebbe ancora disposto a rispondermi: fra le tante sue virtù c’è anche quella della pazienza. Per quanto cerchi, non trovo un’altra domanda da dargli. Ne avrò senz’altro fra qualche mese, quando sarà di ritorno dalla spedizione himalayana alla parete Sud del Nanga Parbat.