LECCO – “Il problema italiano dipende solo in parte dal livello dei salari, ma soprattutto dall’efficienza complessiva dell’economia. Senza un recupero della produttività non è infatti possibile investire in occupazione”. Questo il commento del Presidente del Gruppo Giovani Imprenditori di Confapi, Oriano Lanfranconi, a margine dell’analisi condotta dal Centro Studi Giovani Imprenditori Confapi – Ref Richerche.
La vicenda Electrolux ha dato immediata e grande visibilità a un dilemma che è in realtà tipico di questi anni di crisi: come si difende e promuove l’occupazione? Un taglio dei salari può servire? La risposta è ovviamente diversa a seconda dell’orizzonte temporale che adottiamo. In ogni “breve periodo”, dove tutto il resto è dato, un taglio dei salari – come in parte è la stessa Cassa Integrazione – mantiene un livello di occupazione maggiore. Ma al di là del breve periodo, la relazione causale si inverte: l’occupazione risponde più alla crescita della produttività che alla busta paga. Per una serie di ragioni che diverse ricerche – anche recenti – confermano per il nostro Paese.
Tra il 2000 e il 2011 la crescita annuale media del PIL reale in Italia è stata negativa, così che ci troviamo all’ultimo posto rispetto agli altri Paesi Ocse (figura 1).
Anche le previsioni per il 2014-2015 mostrano una crescita del Pil inferiore rispetto agli altri Paesi Ocse: nel 2014, in questi ultimi l’aumento sarà del 2,3% e in Italia dello 0,6%; nel 2015, sarà rispettivamente del 2,7% e dell’1,4%. Il nostro Paese continua infatti a registrare problemi in termini di crescita imprescindibile dalla produttività (misurata come PIL per ora lavorata), a sua volta stagnante, sia nel periodo precedente la crisi che dopo, benché fino al 1995 fosse in linea con quella delle altre economie avanzate (figura 2).
In particolare, come mostra uno studio dell’Ocse sulla performance economica dell’Italia pubblicato lo scorso maggio, la competitività dei costi del lavoro nel nostro Paese ha registrato un continuo peggioramento fin da prima della crisi finanziaria (figura 3), mentre il successivo miglioramento sarebbe dovuto al deprezzamento dell’euro e a una certa moderazione salariale. Nel rapporto Ocse si legge che: “Nei principali paesi partner, i salari sono aumentati meno della produttività. Tale evoluzione sarebbe stata pressoché impossibile per l’Italia a fronte della bassa crescita della produttività, in quanto avrebbe richiesto un taglio dei salari reali (e perfino dei salari nominali), ovvero qualcosa di assai difficile da conseguire dato l’attuale sistema di contrattazione salariale, anche senza che venga imposta esplicitamente alcuna forma di indicizzazione”.
I costi unitari di lavoro (rapporto tra salari e PIL reale) sono aumentati rispetto agli altri Paesi dove, invece, una disoccupazione molto più elevata ha determinato un aggiustamento più marcato di tali costi. Rispetto a dieci anni fa, i costi unitari di lavoro in Italia sono più elevati di circa il 10% dell’area dell’euro; del 35%, in confronto alla Germania. Nonostante tale incremento, si è tuttavia registrata una contrazione dei margini di profitto, annullando nell’ultimo anno il guadagno prodotto dal deprezzamento dell’euro per gli scambi esterni all’area tra il 2007 e il 2012.
Senza un recupero della produttività non è quindi possibile investire in occupazione: come sottolinea in un recente intervento il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, nell’ultimo triennio la produttività totale dei fattori ha appena recuperato la contrazione del 2009 e gli investimenti per occupato si sono ridotti di quasi il 9%, in contrapposizione a Francia e Germania dove sono aumentati rispettivamente del 2% e dell’8%. La disoccupazione ha così raggiunto il picco del 13%, il doppio rispetto al periodo antecedente la crisi.
Per aumentare l’occupazione e invertire il trend della disoccupazione è dunque necessario adottare una visione di lungo periodo: è prioritario incentivare e investire nella produttività del Paese.

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