Maurizio Giadini. Una “stella” al Basket Lecco

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LECCO – Giocatori come Maurizio Giadini a Lecco se ne sono visti pochi. Nazionale giovanile, uno scudetto cucito sulla maglia, diverse stagioni – e campionati vinti – nelle principali categorie nazionali. Per quelli che seguono il basket a Lecco erano vent’anni che un giocatore di tale spessore non si presentava in canotta e calzoncini, dai tempi di “Ciccio” Della Fiori e Cattini.

L’intervista si svolge in tutta tranquillità. Ne viene fuori il ritratto di un uomo pacato e tranquillo, che ha sempre deciso per sé e per la sua carriera. A volte sbagliando, ma sempre mettendoci la faccia. Si parte dall’esperienza lecchese e si spazia in oltre venticinque anni sui parquet di tutta Italia.

Come è stata la tua esperienza lecchese?
Mi sono trovato bene, anche se è stata una stagione strana. Siamo partiti male a causa dei numerosi infortuni e alla fine solo per una vittoria non abbiamo centrato il traguardo dei play off. Un peccato, perché la squadra era competitiva e lo abbiamo dimostrato battendo almeno una volta tutte e quattro le prime della classe.

Cosa ne pensi della società Basket Lecco, guidata dal vulcanico presidente Antonio Tallarita?
Il Basket Lecco è una società molto giovane a certi livelli e paga lo scotto di una salita molto vertiginosa e rapida. Questa stagione è servita per fare esperienza e crescere. Il presidente Tallarita è una persona viscerale, ancora capace di emozionarsi per lo sport. In un mondo dove lo sport è business non è facile trovare un uomo in grado di versare sincere lacrime di gioia per una vittoria.

Cosa pensi debba si debba fare per migliorare i risultati il prossimo anno?
La DNB è un campionato difficile, dove le squadre sono molto ciniche. Quest’anno abbiamo pagato l’incredibile serie di infortuni di inizio stagione ma, confermando tutto il gruppo, penso che l’esperienza e la coesione ci porterebbero a ottenere risultati migliori. Per rinforzare la squadra servirebbe sicuramente un ala “under”, in grado di giocare sia vicino che lontano da canestro. In questa maniera si allungherebbero le rotazioni, consentendo a tutti di arrivare a fine partita più lucidi e freschi.

Ormai ti avvicini alle 37 primavere, di cui la metà spese da professionista…
Vero. Sono stato molto fortunato nella mia carriera, spesso mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto. Ho accumulato anni di esperienza e ora mi piacerebbe aiutare i miei compagni più giovani, come ai tempi fecero con me. Ho imparato da tutti i compagni e gli allenatori che ho avuto, tutti mi hanno insegnato molto.

Tra gli allenatori c’era anche un certo Trinchieri…
Vero, uno dei migliori che abbia visto in carriera. Lui e Marco Crespi sono stati fondamentali per la mia crescita come giocatore. Esigenti ai limiti dell’ossessivo, stare con loro è stata una palestra di vita dura ma altamente formante.

A Varese ai tempi della “stella” eri allenato da Carlo Recalcati.
Un vero signore, ho un ricordo super di lui e di quella stagione. Un gruppo veramente unico guidato dal folle talento di Pozzecco.

Parlaci di quella squadra.
Pozzecco era il classico giocatore che ti faceva schiumare di rabbia: tu lavoravi come un ossesso per fare cose che a lui riuscivano mettendoci il minimo impegno, giusto l’indispensabile. De Pol era l’opposto: un giocatore costruito che avrebbe abbattuto un muro a testate se solo Charlie glielo avesse chiesto. Il giusto mix era Meneghin: matto ma professionale. Per me, varesino, è stata un’icona e un esempio da seguire.

Il famoso scudetto della stella…
Si, il decimo. Ai tempi fui felice di quella vittoria, anche se ero solo un comprimario da una decina di minuti a sera. Oggi però ti dico che non la sento molto mia, visto il ruolo marginale che avevo in squadra. Ricordo con molto più piacere la vittoria in Legadue con Roseto e quella l’anno successivo con Novara. Ero sceso di categoria, ma ero decisivo in campo. Avrei potuto restare a Varese e fare anni di serie A da comprimario ma ho proferito giocare a un livello più basso, dove le mie prestazioni incidevano in maniera importante e avevo un ruolo di primo piano in squadra. Una scelta di vita.

Una carriera lunga, ormai…
Si. Spesso sono stato fortunato. A volte ho pagato un carattere poco incline ai compromessi. Fare la bella faccia coi tifosi non è mai stato nella mia indole, io sono un professionista che da tutto in campo. Il tifoso spesso è ingrato, proprio per il suo ruolo passionale. Quando la squadra vince è “abbiamo vinto”, quando perde è “hanno perso”. Si identifica solo con gruppi vincenti. Facile saltare sul carretto dei vincitori… ricordo che quando venimmo promossi a Torino nella foto di inizio stagione c’erano dieci giocatori e quattro “cravatte”, leggasi allenatori, dirigenti e accompagnatori. A fine anno, nella foto per i festeggiamenti, i giocatori erano rimasti dieci, le “cravatte” erano quadruplicate… sedici!

Hai pensato la futuro dopo il basket?
La fine della mia carriera si sta avvicinando e, se proprio devo stendere un bilancio, non può che essere positivo. Se dovessi rimanere nel mondo del basket – una volta appese le scarpette – mi piacerebbe farlo con un ruolo decisionale: allenatore o dirigente. Se invece volessi cambiare vita potrei finalmente sfruttare il mio diploma di pasticcere… per opinioni a riguardo chiedete pure ai miei compagni di squadra a Lecco!