Il fattore sfiga. Come acquisire la testa del campione

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LECCO – Uno dei 3 aspetti citati nelle scorse settimane per quanto riguarda il funzionamento della testa del campione è il temutissimo elemento “sfiga”.

Come accennato negli scorsi interventi nel campione “tutto viene visto come sfida e non come sfiga, sia gli elementi positivi che quelli negativi.”

Beninteso che una distinzione va subito fatta fra quella che comunemente viene considerata sfortuna e quella che invece è la cosiddetta fatalità. Quest’ultima rappresenta la specifica circostanza con gravità tale da poter persino invalidare la carriera dell’atleta e, nelle sue espressioni peggiori, causarne anche la morte. In queste situazioni c’è di solito poco spazio per parole o commenti.

Quella a cui invece facciamo riferimento in quest’articolo è la più classica delle condizioni che possiamo vedere in quasi tutte le occasioni di gioco: “ah, che sfortuna la palla è caduta un millimetro oltre la linea!”; “guarda caso quando sono partito io il vento a iniziato a soffiarmi contro”; “la mia gomma scivolava mentre agli altri no”; “non era rigore! L’arbitro è sempre contro di noi!”; per finire con il classico “quello porta sfiga, quando c’è lui, non vinciamo mai!”.

Ora, ci tengo a precisare che in questo articolo non mi prodigherò a convincervi che la sfiga non esiste e che è tutto nella vostra testa, piuttosto vorrei concentrarmi su un’analisi di come vivano i campioni il rapporto con essa. Si può notare come in larga parte i rituali per esorcizzarla siano all’ordine del giorno e finchè non diventano delle ossessioni possono rappresentare delle ottime tecniche per focalizzare la concentrazione e ridurre l’ansia: è quello che in psicologia dello sport viene definita “routine abitudinaria”, un’attività che ha lo scopo di portare l’atleta a rivivere sensazioni (di sicurezza) già vissute in precedenti competizioni e che ha l’obbiettivo di far riemergere le emozioni provate allora per utilizzarle oggi.

Valentino Rossi con il suo accovacciarsi, L’Haka degli All Blacks, Nadal con le sue…mutande da sistemare! Sono tutti esempi di quanto detto sopra e rappresentano episodi divertenti ma assolutamente normali nella loro eccezionalità: l’atleta compiendo questi gesti dimostra di avere il controllo, di sapere cosa fare, come sempre ha fatto in passato per qualsiasi condizione, avversa o favorevole.

Ben diverso è quando i fattori non controllabili diventano ossessioni o assumono significati nelle sconfitte: l’atleta vive la sfortuna come una persecuzione, si sente predestinato al fallimento e percepisce ogni evento negativo come una chiara dimostrazione che qualcuno, o qualcosa, ce l’ha con lui.

A questo punto va ripreso un concetto: convincersi che la sfiga non esista non è la soluzione del problema, piuttosto, ciò che fa la differenza nell’arco di una carriera sportiva, è la percezione che si ha di essa.

Se io considero la sfortuna come parte integrante del gioco, c’è o non c’è poco importa, sono anche in grado di capire la distinzione che passa fra una sconfitta casuale ed una sconfitta dovuta ad una differenza tecnica con l’avversario. Così facendo sono in grado di capire entrambi i casi e soprattutto di comprendere dove lavorare per trasformare la sconfitta in vittoria. Quando invece considero la sfortuna un fattore permeante, sempre lì, pronta a fregarmi, ecco che ogni sconfitta assumerà un solo significato: “sono stato sfigato”. Il cervello si spegne e nella competizione successiva eccoci di nuovo alla frase fatidica: “mi è andata di storta anche oggi”. Diventa semplice, poco faticoso, poche risorse impegnate per elaborare il “lutto sportivo”. La sconfitta è causata da qualche evento esterno, sempre.

Il campione, invece, decide di trovare la differenza fra le situazioni e lo fa perchè in fin dei conti sa accettare la sconfitta “vera”, quella subita sul campo contro un avversario più forte. La sfiga può essere un elemento presente “una tantum”, ma non può certo essere l’unica spiegazione possibile!

Facciamo un esempio: Schumacher (7 volte campione del mondo di Formula 1) giunse in Ferrari nel ’96 dopo aver vinto 2 titoli di fila con la Benetton. Solo nel 2000 vinse il suo terzo titolo. In quei 4 anni là in mezzo successe di tutto: macchina inferiore, squalifica per comportamento scorretto, motore spento all’ultima gara, infortunio nell’anno buono… Insomma, c’erano dei chiari segnali dall’alto, inequivocabili, un destino avverso diremmo. Ma Schumacher fu molto razionale e continuo, per lui era una questione di tempo e così fu, vincendo poi i suoi 5 titoli consecutivi con la Rossa.

Altrettanto significativo (e divertente, grazie alla Gialappa’s Band), è il caso dell’ormai leggendario Steven Bradbury, atleta dello short track alle olimpiadi invernali di Salt Lake City nel 2002. Fu clamoroso: Bradbury era assolutamente di un’altra categoria rispetto agli avversari (sia chiaro, in senso negativo: era lentissimo!), ma una serie di incredibili circostanze favorevoli lo portarono a vincere la medaglia d’oro! Il video ancora impazza sulla rete. Quello che però in pochi sanno è che, prima di allora, precisamente nel ’94, Bradbury era un atleta di successo che aveva vinto anche delle medaglie a livello mondiale. Fu un grave infortunio a stroncare la sua carriera: uno scontro fortuito gli causò la lacerazione dell’arteria femorale, fu ricucito con più di 100 punti di sutura e dovette compiere una riabilitazione di 18 mesi. Nel 2000 si fratturò persino il collo e nonostante ciò si presentò alle olimpiadi del 2002 per… entrare casualmente nella storia!

Questo ci insegna che molto spesso la sfiga ci vede benissimo, ma qualche volta riserva anche delle piacevoli sorprese come forma di “risarcimento”!

Non posso che lasciarvi con la leggendaria impresa di Bradbury! Buona visione:

 

Dott. Mauro Lucchetta

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27 febbraio – Introduzione alla psicologia dello sport