Quando un figlio è scarso nello sport

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Dopo aver sviscerato il tema della mente del campione negli scorsi interventi, in questa nuova rubrica approfondiremo un tema altrettanto caro agli sportivi, il tema dell’atleta… scarso!

Fonte di molte battute e grandi ironie pungenti è in realtà un tema molto importante, soprattutto quando si ha a che fare con i bambini. Anzi, a dire il vero con i genitori. Spesso proprio questi ultimi “soffrono” per le vicissitudini del figlio: quando il figlio è portato per lo sport ecco che arrivano i sogni di gloria, la proiezione dei propri desideri mai realizzati, con il rischio di riempire di aspettative e pressioni il proprio ragazzo.

Fin qui niente di nuovo, sono situazioni che si verificano molto spesso e quasi sempre è necessario agire da moderatori con i genitori.

Ben diverso è il caso opposto, quando un figlio… “beh, non va…” “fa fatica…” “non c’è…” “sembra a disagio!”. Ecco quindi che l’attenzione del genitore non è più caratterizzata dal discorso dell’accrescimento delle abilità del ragazzo, quanto piuttosto sull’impatto emotivo che egli potrebbe subire nel vedersi non capace come gli altri. Da un certo punto di vista questo è il problema numero 1: siamo talmente abituati all’idea di eccellenza (e di predestinazione) che quando si verificano situazioni appena al di sotto la media si tende subito a svalutare oltre misura il risultato: se un bambino di 6 anni non sa palleggiare bene allora non sarà mai un campione! E’ come un macigno, quell’idea di “non essere portato” che poi si cristallizza e rimane lì quando invece anche il semplice buon senso potrebbe venirci in aiuto: con l’allenamento e tanta costanza spesso si assistono a dei miglioramenti radicali anche in persone che apparentemente non davano l’impressione di poterci riuscire. Per un bravo genitore non è sufficiente essere solo cosciente di questo processo ma è assolutamente indispensabile che trasmetta questa fiducia anche al proprio figlio. Far capire al bambino che non si deve soffermare troppo sul risultato odierno quanto piuttosto su un processo di crescita continuo nel tempo è la cosa più difficile del mondo (del resto i bambini vivono quasi sempre nel tempo presente) ma quando si riesce ad “arrivare” ecco che lo sport diventa realmente una metafora della vita: se nello sport puoi anche abbandonare, certamente non si può fare altrettanto con la vita (se non nei casi di atti estremi), invece perseverare alla ricerca di un miglioramento sportivo, seppur di poco conto, è un buon modo per allenarsi proprio alle intemperie dell’esistenza, al di là di tutto! Allo stesso tempo ciò permette di alzare la soglia della percezione del fallimento e stimola nel ragazzo il desiderio di continuare a provarci investendo maggiori risorse.

Inoltre, se il figlio è contento di essere lì e svolgere quella specifica attività, non devono essere di certo i genitori ad insinuare dubbi o paure che magari appartengono al loro passato, ma che non fanno parte del bagaglio di loro figlio. Questa considerazione introduce il secondo aspetto da considerare: quello sociale. C’è il bambino che gioca solo per stare in gruppo, per vivere esperienze con i coetanei, magari anche solo per mangiare la pizza insieme dopo la partita! Fare quello sport gli piace, non sarà il migliore, ma è facile intuire le sue sensazioni: basta guardarlo in faccia e osservare che tipo di interazioni ha con i compagni sia in campo che fuori. Anche in questo caso è importante che le emozioni del genitore non vengano confuse quelle del figlio: non è il bimbo che sembra in difficoltà, spesso lo è il papà! Gli occhi (e le parole) degli altri genitori presenti sugli spalti sono gli ostacoli che deve spesso affrontare un genitore che vive questo tipo di situazioni. Lo sport nello sport: saper far fronte alle sfide fra i genitori. Il mio consiglio è uno solo: è il momento di vostro figlio, lasciateglielo vivere come meglio crede e siate promotori di una cultura della serenità, dell’errore che ci può stare e che ci deve stare, perchè imparare oggi serve per uno scopo più importante domani. Suvvia, è un gioco…

Dott. Mauro Lucchetta

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