Calolzio. Don Giancarlo racconta il covid: “Facevo fatica anche a pregare”

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L'arciprete di Calolzio don Giancarlo Scarpellini
L'arciprete di Calolzio don Giancarlo Scarpellini

Le parole dell’arciprete sul notiziario dell’Unità pastorale

“Ho avuto modo di apprezzare la dedizione e l’impegno del personale infermieristico”

CALOLZIOCORTE – Era stato ricoverato il 15 marzo a causa del coronavirus. Sono trascorsi 40 giorni prima che l’arciprete di Calolziocorte, don Giancarlo Scarpellini, riuscisse a tornare ad abbracciare la sua comunità. A distanza di un mese dalla guarigione il sacerdote ha raccontato quei momenti difficili sull’ultimo numero di “Tre Voci Una Parola”, il notiziario dell’Unità Pastorale Calolzio-Foppenico-Sala.

La mia esperienza Covid

“Non pensavo proprio di buscarmi quella pandemia; ritenevo di essere forte in salute.
Ero uscito martedì 3 marzo a portare la comunione agli anziani di quella giornata; portavo la mascherina nell’entrare nelle case e prendevo la precauzione della distanza. Tutto era andato bene.
Dovevo riprendere le comunioni dal giovedì al sabato. Mi hanno dissuaso in tanti. Così ho rinunciato informando telefonicamente di tale rinuncia gli anziani interessati.
Nel frattempo però cominciavo ad avvertire dei sintomi di malessere.
Dal 5 al 15 marzo il malessere continuava. Mi veniva sconsigliato il ricovero sia perché i miei sintomi apparivano leggeri sia perché l’ospedale in quel momento appariva un alleato della pandemia.
Dal 10 al 15 marzo, solo in casa, mi è capitato almeno tre volte, durante il giorno, di svegliarmi per terra, senza rendermi conto di cosa fosse successo.
La prima volta mi sono ritrovato con la testa immersa in una piccola pozza di sangue, forse sceso dal naso, un bernoccolo sulla testa e le borse nere delle occhiaie attestava una caduta.
Non riesco a dire altro perché quei giorni mi appaiono come appiattiti, non riesco a metterli in ordine.
Anche le cose che seguono le ho perse nei particolari e mi sono state riferite.
La sera di domenica 15 marzo mi telefonano Paola e il direttore della nostra casa di riposo, Venturini. Non avverto le chiamate. Chiedono a Paolo il favore di raggiungere casa mia. Vengo trovato in condizioni non buone. Così viene chiamata l’ambulanza.
Sono circa le ore 22. Vengo ricoverato all’ospedale Manzoni di Lecco. La prognosi della radiografia e del tampone è quella di affezione da Covid-19. Ma non mi ritengono da terapia intensiva. Quella sera e nei giorni seguenti passo in tre reparti differenti dell’ospedale.
Le prime notti in ospedale sono state angosciose; la paura, più psicologica che reale, era alimentata anche dalle notizie della Tv che ogni ammalato aveva a disposizione gratis.
Di notte non dormivo per timore di avere una crisi respiratoria; in più il letto scomodo, di occasione, più corto della mia statura non mi permetteva di distendermi per bene. In una delle prime notti mi sembrò di essere vicino alla morte. Per due settimane mi hanno prestato le cure del caso: pastiglie retro virali, altre pastiglie, eparina, respirazione aiutata tramite maschera….
Dei tre compagni di camera che si sono succeduti accanto a me, uno della mia età l’ho visto morire.
Ho avuto modo di apprezzare la dedizione e l’impegno del personale infermieristico che spesso affidavo al Signore; e glielo dicevo. Facevo fatica a pregare e capivo quegli ammalati che mi avevano confidato tante volte: non riesco a pregare.
Il 24 marzo il nuovo tampone eseguito risulta negativo.
Le mie dimissioni sono previste per sabato 28 marzo. Il venerdì 27 marzo il Vescovo mi aveva avvertito, con un messaggio al cellulare, che la diocesi aveva messo a disposizione una casa apposta per sacerdoti reduci dal coronavirus. Ma io ero impaziente di tornare a casa; per cui inizialmente ho declinato gentilmente l’invito.
La notte di quel venerdì 27 non ho dormito per niente; mi tormentavano alcune domande: se a casa ho una crisi respiratoria chi mi dà una mano? E come faccio a gestirmi in casa: ho perso le forze e non so se riesco a reggermi in piedi (ero rimasto a letto dal giorno del ricovero)? E per il mangiare come me la sbrigo? Ero talmente agitato che sabato 28 alle 4.45 del mattino ho mandato un Sms al Vescovo chiedendo di essere ospitato nella casa messa a disposizione dalla diocesi.
È così che sabato 28 pomeriggio sono stato trasportato da Lecco a Bergamo.
Ora ero tranquillo anche se la notte ho continuato a dormire poco, probabilmente come strascico dell’epidemia e senz’altro per il letto a montagne russe che mi facevano alzare al mattino col mal di schiena.
I giorni comunque sono trascorsi sereni, anche se il pensiero era alla parrocchia. Mi tenevano legato ad essa i messaggi e le telefonate che ricevevo e che mandavo e le riflessioni che ho iniziato a spedire digitalmente il sabato a commento della Parola domenicale.
In data 14 e 16 aprile ho eseguito i due tamponi che dovevano concludere la quarantena. L’esito sembrava non arrivasse più. Ho fatto diventare matti tutti per poterlo avere al più presto; finalmente venerdì 24 aprile mi avvertono: tamponi negativi. Non ho voluto aspettare altro tempo. Ho chiesto subito di essere trasportato a Calolzio.
Erano passati 40 giorni dalla mia partenza per l’ospedale, e tornavo guarito”.
Don Giancarlo