….E’ solo un farmaco…

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Da qualche anno lavoro come consulente psichiatra presso una comunità per tossicodipendenti. Questo mi ha dato modo di venire sempre più a contatto con l’esperienza drammatica, a volte tragica di chi si trova “intrappolato nella realtà mortifera della tossicodipendenza”.

Ascoltare gli ospiti della comunità, collaborare con quanti si occupano di tossicodipendenza, è stata per me l’occasione per dare contenuto riflessivo a una intuizione che avevo avuto in passato e che ritornava quando mi trovavo ad ascoltare soggetti che all’interno di una vita tossicomanica avevano avuto disturbi psichiatrici, oppure familiari che mi portavano il disagio di un proprio parente tossicodipendente. Ho sempre lavorato con malati psichiatrici, dapprima in Ospedale Psichiatrico poi nel Centro PsicoSociale (CPS) e Servizio Psichiatrico (SPDC) e l’incontro sporadico con persone tossicodipendenti mi interrogava sull’origine di quanto succedeva a queste persone, mi chiedevo se si trattasse, dal punto di vista strutturale, di una “affezione diversa” da quella che portava il folle, di un’altra malattia per dirla semplicemente. Tra i pazienti del CPS vi erano persone che con la droga avevavo avuto un incontro occasionale, ma poi la loro storia di malattia si era spostata completamaente in una franca patologia psichiatrica, una iniziazione, un periodo in cui la persona passava dalla droga alle crisi psichatriche e, infine, la stabilizzazione in una franca sintomatologia psichiatrica, come una “scelta soggettiva” verso la follia.

Le persone che in comunità chiedono di parlare con me o che vengono segnalate dagli operatori, portano disturbi legati a una sindrome depressiva- ansiosa, impulsività, aggressività, non usano molte parole per descrivere quanto sentono. Alcuni hanno già una terapia psichiatrica e chiedono o di farne a meno o di fare delle variazioni: non vogliono prendere “farmaci che li intontiscono, che gli facciano perdere la vigilanza”, richiesta curiosa, mi dico, in chi ha preso di tutto e che ancora fa fatica a distogliere l’attenzione dalle sostanze.

Non faccio fatica a proporre le benzodiazepine, anzi le chiedono. Inizialmente mi dicevo: si sa il tossicodipendente vuole il Tavor…ecc., il farmaco al posto della sostanza, per “ sballare”?, ma allora perché rifiutano gli psicofarmaci-maggiori? Vogliono rimanere vigili.

Forse il farmaco è al posto della sostanza, della droga… Il farmaco sostituisce la sostanza, ma la sostituisce in cosa? Forse la sostanza è stato il tentativo grossolano di rispondere a un disagio? Una sorta di autoterapia, un tentativo mortifero di colmare un vuoto soggettivo strutturale, il tentativo di uscire da una difficoltà sostanziale, quella di riuscire a vivere, di esserci. Purtroppo un tentativo votato alla morte.

Quanti tentativi di uscire da questo inferno, quanti ricorsi compulsivi alle sostanze, qualsiasi sostanza: dopo un percorso comunitario portato a termine, o nel mezzo di un percorso o nella difficoltà di un percorso, ovunque la realtà quotidiana chiede di vivere. “ Qui dentro impazzisco….devo uscire..fare le cose normali…un lavoro.. la donna…non posso aspettare”, mi diceva un ospite. È’ stato così altre volte: entrare…uscire..farsi…ripetere. Impazzire o “farsi” sembrerebbe l’alternativa, impazzire o mandar giù qualcosa, qualche farmaco.

Non posso non pensare a quanto diceva Freud del delirio del folle: “ il lavoro del delirio, la formazione delirante che noi consideriamo il prodotto della malattia, costituisce in verità il tentativo di guarigione, la ricostruzione ( ricostruzione che non avviene mai appieno) che fa il malato per dare un senso alla realtà, per ritornare a reinvestire sulla realtà”. Il malato esce dalla disgregazione costruendo un delirio, con tutte le conseguenze che il vivere in un mondo delirante comporta.

Ritorno in comunità. Impazzire o farsi, ci si può fare anche di farmaci, è una sostanza come un’altra. Ingurgitata per non affrontare la realtà, per non vedere la realtà. Sembra che il soggetto non abbia scelta. Dove trovare le coordinate che permettono a ognuno di affrontare il vivere nel mondo, affrontare la realtà senza confondervisi? Anche il semplice quotidiano comunitario mette il soggetto di fronte alla propria carenza, a questa assenza di bussola, e il ricorso alla sostanza, il pensiero di essa o il ricordo di essa sembra venirgli incontro come soluzione. La sostanza al posto della follia?

C’è una questione non indifferente, l’ho capita da poco. Egli non sa dire, non sa dire che non ce la fa a vivere questa “banalità” del quotidiano, agogna una vita normale, non sa dire altro, non sa dire del proprio disagio, non ha le parole.

E’ solo un farmaco, mi dico e gli dico…ma è necessario non dimenticare il posto che può occupare nel processo di deresponsabilizzazione del soggetto, perché esso (farmaco) venga inquadrato come uno strumento, uno tra gli altri, all’interno del lavoro congiunto con quanti lavorano nel campo delle dipendenze.

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