Un gioco a perdere. Due considerazioni sul gioco d’azzardo.

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Mi capita con una certa regolarità di parlare con una persona che lavora in una casa da gioco, un casinò. Recentemente mi ha raccontato un fatto che gli è capitato al lavoro. Una signora impegnata con una slot-machine all’ennesimo cambio da contanti a gettoni, si lamenta con lui: devono essere per forza truccate queste macchinette, non è possibile che io non vinca mai! Colpito dalle parole della signora, la persona di cui sopra mi dice di aver pensato tra sé: sarebbero truccate se lei vincesse!

Questa scenetta spinge, almeno chi scrive, a fare una piccola considerazione sulla questione del gioco. Una considerazione semplice ed evidente, anche se misconosciuta nella sua importanza: perché si gioca d’azzardo?

La faccenda è tutt’altro che semplice. Dire che si gioca per vincere, non tiene conto del fatto che nessuno può onestamente sostenere di non essere avvertito del fatto che “il banco vince sempre”. Ciononostante proliferano le sale da gioco, i casinò, i bingo, nei bar le slot-machine sono un arredamento diffuso che ha soppiantato i vecchi e decisamente meno pericolosi video games degli anni ottanta e novanta.

Ma se il banco vince sempre, se la logica alla base di riffe e lotterie prevede che le possibilità di vittoria per ogni singolo giocatore siano talmente esigue da essere irrisorie, perché così tante persone sono prese, catturate, dipendenti da questa pratica?

Voglio essere chiaro, non è mia intenzione tracciare le cause, l’eziologia, che porta alcune persone a dilapidare somme enormi e a costringere le persone che hanno accanto a scegliere tra subire situazioni estremamente pesanti o tagliare i ponti. Quello di cui mi accontenterei è di mettere in luce due considerazioni sulla questione del gioco d’azzardo.

La prima considerazione è diretta conseguenza di quanto detto sopra, ed è inerente al tipo di soddisfacimento che il gioco comporta. La letteratura mondiale raccoglie una serie pressoché infinita di romanzi sull’argomento. La maggior parte dei personaggi di queste storie, per citarne uno su tutti si pensi a Aleksej Ivanovič il protagonista di Il giocatore di Dostoevskij, sono descritti come presi da una forza incontrollabile che li spinge a dissipare ogni loro avere nell’attesa di un momento, immaginario, in cui sbancando il banco potranno, con il frutto delle loro vincite, recuperare i denari persi riscattandosi così della loro dissolutezza. Un’immagine ormai diventata usuale e che mi sembra cogliere la questione in gioco, è quella di un individuo preso nel mettere le monete dentro una slot-machine o, se volete, occupato a fare la spola tra la cassa del tabaccaio e i tavolini approntati per strofinare i gratta-e-vinci. Questa immagine mette in evidenza l’alternanza di due momenti: quello della giocata e quello dell’inserimento della moneta successiva. L’impressione che se ne ha è che la singola giocata, che peraltro dura pochi secondi, qualora non porti una vincita, non comporti neanche una grande delusione, quasi che la sconfitta fosse prevista.

Da queste osservazioni credo sia lecito, quantomeno ipotizzare, che il giocatore è come se si mettesse volontariamente in una situazione di perdita, concretamente di denaro, che lo immette in circuito, infinitamente inconcludente, teso a recuperare tale perdita. A questo meccanismo si associa uno stato di tensione che finisce con il giustificarsi in sé e con il trasformarsi da mezzo a fine.

Mi sembra qui opportuno notare che questa tensione, per raffigurala potremmo pensare alla suspense dei rulli delle slot-machine prima che si fermino, sembra rinviare ad un appagamento dell’ordine della sensazione in sé. Non a caso Freud associava il gioco d’azzardo alla masturbazione.

Questa la seconda nota sul tema del gioco d’azzardo. Esso sembra configurarsi come una pratica che produce una soddisfazione, se così si può chiamare, che non implica il rapporto con altri. In vece delle emozioni, ambito che è sempre in un qualche legame con l’altro, si sostituisce la cruda sensazione, come nelle tossicomanie. Sul piano sociale questa spinta verso l’isolamento si concretizza spesso con l’incrinarsi o la rottura dei rapporti con i familiari, gli amici, il lavoro.

Pongo l’ultimo perché che impone un salto, un cambio di registro: perché proprio a me?

Quanto detto sopra concernere infatti il fenomeno “gioco d’azzardo” nella sua impersonalità, al di là dei singoli. Occorre capire come questa questione si installa e si declina nella storia di un particolare individuo, di lui e non di un altro per cercare di mettere un freno a questa pratica muta, spesso drammatica. Spesso l’espressione “gioco d’azzardo” viene accompagnata dalla parola vizio. Vorrei concludere su questa accoppiata che, a mio parere, rischia di promuovere il fraintendimento che il giocatore si diverta, che goda, insomma che lo faccia volontariamente, per vizio appunto. Quest’ottica pone la volontà del soggetto come causa e contemporaneamente anche soluzione del problema. Dal lato delle cause c’è “giochi perché vuoi”, da quello della soluzione “per smettere basta volerlo”.

L’esperienza insegna però che spesso si agisce, non contro la propria volontà certo, ma spinti da “qualcosa” contro cui la volontà risulta poco efficace, per non dire impotente. Dare un nome a questo “qualcosa” penso possa essere un passo, non da poco.

 

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