(S)Punti di Vista. Il Carnevale nella Bormio del 1700

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RUBRICA – Buongiorno carissimi lettori! Eccoci al nostro appuntamento del venerdì, oggi è un venerdì particolare, quello “grasso” di Carnevale! Potrei dunque non raccontare di come si viveva il Carnevale una volta?

Siamo nel 1700, a Bormio, in Valtellina, dove negli ultimi giorni di Carnevale il “popolo” si radunava nella piazza maggiore e “al suono di instrumenti, uno stuolo di maschere eleggevasi un principe buffone carnevalesco, detto podestà dei matti: insignito costui di illimitata giurisdizione, portavasi colla truppa al pretorio e vi intimava al podestà e ai reggenti, per quei giorni, la sospensione delle loro funzioni” (Glicerio Longa, “Usi e costumi del bormiese”, edizioni “Magnifica Terra”). Un po’ quello che accade anche a Lecco dove Re Resegone e Regina Grigna ricevono le chiavi della città e diventano “i regnanti” per il tempo di Carnevale (oggi saranno in visita nei vari quartieri).

Ma torniamo al podestà dei matti che si recava nelle varie case per ricevere squisitezze e denari; talvolta rapiva qualche novella sposa particolarmente affascinante ed il marito era costretto a riscattarla.

Per il tempo di Carnevale a Bormio si ballava tutte le notti e il giovedì grasso, in piazza, veniva distribuita polenta per tutti fra “le scenate, le satire e le scurrilità di un arlecchino” (ibidem, tratto da “Storia della Valtellina” di Romegialli). Altro storico, invece, più precisamente il professor Achille Neri, nel suo “Costumanze e sollazzi”, indica come serata conclusiva del Carnevale, quella del sabato grasso “Tutti contribuiscono, chi in farina di polenta, chi in butirro, chi in formaggio e chi in denari, e il sabato alle ore 22 si fa in piazza un gran caldaro di polenta, che si distribuisce a tutti i poveri (…)”.

In ogni caso nel 1755 fu emesso un decreto che aboliva la mascherata carnevalesca ma i bormiesi non si scoraggiarono ed ottennero, 11 anni dopo, la revoca del decreto e la possibilità di “quei divertimenti, purché non si commettessero violenze e si rispettasse il palazzo del Podestà”. Naturalmente non possono mancare dolci tipici, li manzola, “sottili schiacciate o frittelle di fior di farina, impastate con uova, burro e liquore spiritoso, e cotte col burro e inzuccherate” alle quali unire “il latmèl o mezmenà, panna montata o gonfiata”.

Giovanna Samà


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